Intorno al mille e fino al 1500 era importante, nel cammino della vita di una persona, trovare un tempo dove si lasciava la casa per cercare se stessi, attraverso un percorso che diventava un itinerario dell’anima verso il Dio. Fin verso il Seicento, il pellegrino aveva una meta, un traguardo, un punto di riferimento, tanto è vero che una volta arrivati si ritornava cambiati. Chi era andato a Gerusalemme e, tornando portava una palma, poteva fregiarsi del nome di “palmiere”, chi era andato a Roma in pellegrinaggio poteva fregiarsi del nome di “romeo”, che era andato a Santiago di Compostela potava fregiarsi del nome di “pellegrino,”perché era andato nel posto più peregrino, più lontano del mondo allora conosciuto, fino ai confini della terra. A volte, addirittura si cambiava l’identità, si mutava il nome. Lo si faceva con un significato penitenziale. I pellegrini volevano veramente cambiare qualcosa della loro vita, uscire dal modo di vivere abituale, uscire dalle condizioni della vita quotidiana per ritornarvi rinnovati. Dal Seicento fino all’Ottocento, il pellegrino perde la meta religiosa del proprio cammino, diventa un esploratore, va a vedere le tribù antiche , le farfalle, le specie rare …, e scopre il mondo, anzi scopre l’evoluzione del mondo. Quello che una volta era il pellegrino, ora ha abbassato lo sguardo , non ha più una mèta alta, punta sul microcosmo, sulle leggi della realtà, vuol vedere i particolari, vuol cogliere il meccanismo della vita, impara a fare tante cose, ma disimpara il sapere fondamentale, che è il” saper vivere”.Il pellegrino antico cercava la stella polare per trovare il senso della vita. L’esploratore cerca il meccanismo del mondo che conduce al sapere tecnico e a manipolare il mondo. Poi arriva il Novecento, e anche l’esploratore si perde e l’uomo diventa turista, bighellone, colui che va in giro senza una meta , o cerca una meta comoda e poco costosa, è un tipo da last minute. Oggi molti non sanno dove andare, vanno alla ventura, aspettando che qualcosa susciti in loro un’emozione forte, lasci una traccia che, una volta tornati, scompare, per tornare a nuove emozioni e avventure l’anno dopo. Ma non c’è più una stella da seguire (il pellegrino) e neanche una curiosità da perseguire (l’esploratore), ma solo un’avventura da cercare (il turista per caso). A questo punto la mia domanda è: possiamo noi tornare ad essere antichi pellegrini che, mentre cercano la stella dietro la quale camminare, ritrovano l’itinerario interiore, che consente di ritrovare non solo sé stessi, ma anche il volto dell’altro, il volto della famiglia, il significato del proprio lavoro, i gesti che facciamo ogni giorno? Questa è la posta in gioco del pellegrinaggio. Nella nostra fede cristiana è rimasta solo la domenica come un fatto che coinvolge tutta la nostra vita quotidiana, il nostro corpo. Avete visto che ormai la cosa più geniale che pensa un papà per tenersi buoni i figli è quello di portarli la domenica a pranzo (si fa per dire…) alla città mercato. Che colpo di genio! Che guizzo di creatività! Capite? Per questo sono diventato un difensore accanito della Domenica, perché è rimasta l’unico baluardo di difesa di una religione che vuole essere incarnata nella vita. Noi avevamo ben altro nel passato, avevamo il pellegrinaggio, che metteva in gioco la totalità della persona perché coloro che andavano in Palestina non sapevano se sarebbero tornati indietro: si rischiava veramente la vita, ma lo si faceva per rinnovare la vita! Anche il pellegrinaggio interiore che ognuno di noi può e deve fare, dovrebbe essere un pellegrinaggio a rischio della vita, dove uno si mette di nuovo in gioco, in qualsiasi tappa della vita. Infatti, giunge sempre un momento in cui uno si deve rimettere in campo, in cui si deve rigiocare la partita della vita. Noi vorremmo che il pellegrinaggio diventasse un’esperienza di trasformazione spirituale. E anche culturale, capace di cambiare e di cambiarci. Vedremo come fare, con chi farlo, a chi proporlo; dobbiamo chiederci: Chi siamo noi? Come stiamo vivendo la nostra corporeità, i nostri sogni, i nostri sentimenti, le nostre paure, le nostre angosce, le nostre rabbie,i nostri risentimenti, le nostre gioie, i nostri progetti per comprendere come arrivare al traguardo ultimo della vita. Questo dovrebbe essere il pellegrinaggio che noi dobbiamo e vogliamo fare. Dio ci attende. Ritorniamo di nuovo a imparare ad essere pellegrini!
+ Franco Giulio Brambilla Vescovo di Novara
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